Le bandiere ombra e l’inquinamento ambientale

La sistematica ricerca di trasporti a bassissimo costo spiega la lunga litania di disastri petroliferi, soprattutto nell'Europa occidentale: Torrey-Canyon nel 1967, Olympic-Bravery, Urquiola e Boehlen nel 1976, Amoco-Cadiz nel 1978, Gino nel 1979, Tanio nel 1980, Haven nel 1991, Aegean-Sea nel 1992, Braer nel 1993 e Sea-Empress nel 1996 (anno in cui sono naufragate, in tutto il mondo, 70 petroliere). Ultimo in ordine cronologico, quello della petroliera Erika che, partita da Dunkerque alla volta di un porto italiano, si è spezzata ed è colata a picco in seguito a una tempesta

al largo di Penmarch, il 12 dicembre scorso.
Come già ricordato i
l trasporto marittimo mondiale somiglia sempre più a una giungla, in cui regna una concorrenza spietata. Fino alla fine degli anni 60, era dominato da una manciata di grandi nazioni che si prendevano carico sia della costruzione delle navi che del loro utilizzo sotto le proprie bandiere, il che assicurava un buon grado di sicurezza tecnica e solide garanzie salariali e sociali per i marinai, vista le difficoltà e i rischi del mestiere. Così, prima della crisi petrolifera del 1973, le grandi compagnie petrolifere provvedevano da sole alla produzione del greggio e dei suoi derivati, facendo uso delle loro flotte per trasportarli fino alle raffinerie. Da allora, però, sono state introdotte nel settore, per eludere una normativa internazionale vieppiù rigida che però, paradossalmente, l'Organizzazione marittima internazionale (Omi) e gli stati, per mancanza di mezzi o di volontà, si sforzavano sempre meno ad applicare due grosse novità: la massiccia esternalizzazione e la diffusione di bandiere ombra. L'esternalizzazione risponde a due obiettivi principali: il primo di carattere finanziario fare abbassare i costi generali della lavorazione del greggio , il secondo giuridico sfuggire, in caso di trasgressione, ad ogni azione giudiziaria o sanzione, grazie a una selva di intermediari in un torbido intreccio di società e attori di ogni sorta. L'Erika costituisce un buon esempio di questo groviglio economico, giuridico, tecnico e umano: in ventiquattr'anni ha cambiato sette volte nome, nove volte gestore e cinque volte bandiera. La nave batteva bandiera maltese, era proprietà di una potente lobby di armatori greci, con sede a Londra e nel Pireo, che, a quanto pare, faceva da prestanome ad una grande famiglia napoletana, i Savarese, impegnati da secoli nel ramo del commercio internazionale.
Gestita da una società italiana di Ravenna, armata da un mediatore inglese, dotata di un equipaggio indiano, veniva poi noleggiata per conto di TotalFina, primo gruppo industriale francese.
Una tale situazione ha permesso a Thierry Desmarest, presidente di TotalFina che noleggia più di 1.000 navi l'anno di addossare la responsabilità della marea nera all'armatore, trincerandosi dietro il

diritto internazionale (la convenzione di Bruxelles del 1969, modificata nel 1992) secondo cui è il proprietario di una nave a doversi far carico della sua gestione e dei danni derivati da eventuali inquinamenti. Utilizzando i servizi di Total International Limited, la sua consociata commerciale con sede nelle Bermuda, e di Total Transport Corporation, altra consociata che si occupa dei trasporti immatricolata a Panama, il gruppo si inserisce perfettamente in questa torbida logica di deresponsabilizzazione, che gli permette di lesinare sulle spese. Mentre Shell, Bp e Exxon avevano rifiutato i servizi dell'Erika, pienamente al corrente dei rischi che avrebbero corso (grazie a una banca dati comune), TotalFina non ha esitato a noleggiarla.
Di fronte a una tale situazione, le autorità nazionali e internazionali avrebbero potuto agire con forza, se solo ne avessero avuto la volontà politica. Fin dal 1993, in seguito al naufragio della Braer, il Parlamento europeo esortava la Commissione ad adottare alcune misure: divieto d'ormeggio nei porti dell'Unione per le petroliere con più di 15 anni (come avviene negli Stati uniti), adozione di un calendario di scadenze per vietare l'approdo alle petroliere sprovviste di doppio scafo e interdizione delle bandiere ombra. Ma, sotto le pressioni della lobby petrolifera, il consiglio dei ministri dell'Unione ha deciso di rimettersi alle decisioni dell'Omi.
A livello internazionale, nel febbraio 1986 è stato adottata, dopo dieci anni di trattative condotte sotto l'egida della Conferenza delle Nazioni unite per il commercio e lo sviluppo (Unctad), una convenzione sulle condizioni d'immatricolazione delle navi, finalizzata a stabilire "un reale legame tra navi e stati di immatricolazione". Ma il rifiuto di ratificarla da parte di diversi stati ancora ne blocca l'applicazione. Il Giappone e gli Stati uniti hanno deciso di agire per conto proprio, fissando misure estremamente restrittive nei confronti delle navi presenti nelle loro acque territoriali e riservando il cabotaggio alle loro flotte nazionali.
L'Unione europea, in conformità con la sua logica ultra-liberista, non ha seguito questo esempio. Eppure, le compagnie petrolifere hanno sufficienti mezzi finanziari per impiegare bandiere nazionali, usare navi recenti e sicure (a doppio scafo), o anche per un rinnovo a medio termine, secondo un calendario da negoziare, delle loro flotte. Il principio"chi inquina paga" dovrebbe essere sistematicamente applicato, malgrado i suoi limiti, per scoraggiare a livello finanziario queste politiche scandalose ad alto rischio ambientale.
Dovrebbe essere integrato dal principio della corresponsabilità solidale dell'armatore, del noleggiatore-caricatore, della società di classificazione che ha certificato la navigabilità della nave, e degli assicuratori. Il settore delle società private di controllo tecnico e di verifica delle norme necessita di un urgente risanamento, dopo il pesante errore di valutazione dell' italiano Rina   (il Registro navale italiano), un cui "esperto" aveva esaminato l'Erika il 24 novembre scorso in Sicilia, autorizzandone in modo compiacente la navigazione.
L'Unione deve anche intraprendere una lotta risoluta contro le bandiere ombra, soprattutto quelle europee (Grecia, Cipro e Malta, per esempio), semplicemente vietando l'approdo alle loro navi e esercitando in modo più energico il diritto che ha lo stato che ospita il porto di proibire a una nave difettosa di salpare. Ma per far ciò servono mezzi finanziari e umani. Se, dopo la catastrofe dell’Amoco-Cadiz, diciotto stati (i quindici dell'Unione europea, più la Norvegia, il Canada e la Russia) avevano adottato un memorandum proposto dalla Francia, che prevedeva l'ispezione di almeno il 25% delle navi ormeggiate in ogni porto, la stessa Francia non si è poi rivelata in grado di rispettare questa quota (ne ha controllate solo il 18%).
Ciò è dovuto alla carenza di personale, causata dai tagli di bilancio imposti dall'ideologia del "sempre meno stato". Così, in Francia ci sono appena 60 ispettori di sicurezza, quindici volte meno di quanti ce n'erano dieci anni fa, e tre volte meno di quanti ce ne sono nell'assai più rigoroso Regno unito. Infine, l'Omi organismo della famiglia delle Nazioni unite, che ha sede a Londra e riunisce 156 stati deve essere potenziato, mediante un rafforzamento dei suoi poteri di prevenzione e repressione, così come è avvenuto per il traffico aereo. Le regole del gioco di questo settore, in cui la ricerca di profitti massimi e immediati permette di provocare, nella più totale impunità, danni di ogni sorta al patrimonio marittimo mondiale, vanno profondamente cambiate.

                                                           

 

                                                              

  VAI AL MENU'